Premessa a Ugo Foscolo. Storia e poesia (1981)

W. Binni, Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. VII-XIII.

Premessa a «Ugo foscolo. Storia e poesia»

Che posto ha avuto Foscolo nella mia storia di critico? Ché non sta a me misurare quale posto e peso abbia avuto il mio esercizio di foscolista nella critica foscoliana di quest’ultimo trentennio.

Mi pare chiaro che in quest’ultimo (lungo o breve non so, ma certamente ultimo) lembo di vita in cui vedo meglio in me stesso e nelle mie vicende intrecciate di critico e di uomo di cultura impegnato (non disprezzo questa pur equivoca parola, perché non l’ho mai usata ed esercitata in senso zdanoviano, ma nella sua accezione di libero, volontario legame con la storia civile e politica del mio paese e del movimento democratico-internazionale), di processo di Weltanschauung, e direi di «poetica» personale nel coinvolgimento che tale parola ha per me di idee e di gusto, di scelte etiche ed estetiche globali, mi pare chiaro che Foscolo, pur appartenendo alla zona culturale-letteraria a me piú congeniale (fra Sette e Novecento, ma soprattutto fra metà Settecento e metà Ottocento, in mezzo ad autori come Alfieri, Hölderlin, Vigny, Stendhal, Shelley, Leopardi, Mozart, Beethoven, David, Canova e Delacroix tanto per citarne le cime), non è stato mai un punto intero di forza come invece sono stati Alfieri e soprattutto Leopardi («il poeta della mia vita», come l’ho esplicitamente chiamato) e (in altre zone) l’Ariosto e Michelangelo e, meno da me criticamente esercitato, Dante, o poeti piú moderni come l’ultimo Carducci grave-elegiaco, Rimbaud e Montale. Sicché, se posso dirmi soprattutto leopardiano, non potrei dirmi foscoliano (come poteva dirsi il compianto e grande foscolista Fubini) anche se nei miei rapporti con Foscolo mi par di osservare una curvatura di vicinanza, prima piú entusiastica e accettante (e pur non priva di fertili spunti), poi, dopo silenziosi dissensi, piú diretta ai suoi modi di intervento storico-poetico e a qualità della sua figura di intellettuale-poeta, di personaggio romanzesco e creatore di romanzo (nell’acceso sfondo del periodo rivoluzionario-napoleonico e in quello tetro della Restaurazione) provocata anzitutto dalla piaga esulcerata del formidabile Ortis anche nell’uso che Leopardi ne fece a nutrimento di tanta sua meditazione e poesia. Sicché proprio dal rapporto Alfieri-Foscolo e soprattutto Foscolo-Leopardi ho abbastanza recentemente ripresa una attività di foscolista, aperta da un breve saggio sull’Ortis, dall’interpretazione della prima Ode dentro lo sviluppo del giovane Foscolo e, per ora, culminata nel primo saggio del presente volume, che configura Foscolo come rappresentante, sulla base del pessimismo eroico desolato di Alfieri (la Mirra), di un pessimismo ultrarealistico, duramente accettato («cosí è, cosí deve essere»), che non comanda (come in Leopardi) un rovesciamento dell’ordine delle cose, ma che spinge a intervenire ad allargare gli spazi della dura realtà esistenziale e sociale, a creare valori alternativi piú che direttamente oppositivi (le Grazie, non la Ginestra).

Cosí meglio credo di aver indicato una linea che da Alfieri passa per Foscolo e giunge a Leopardi, in netta opposizione a quella che culmina nel consolatorio e paternalistico-provvidenzialistico Manzoni, oggetto per me, se pur ben alto, di un lontano, ma crescente dissenso[1] che investe tutta una tradizione (non solo cattolica, ma anche laico-moderata) della nostra moderna storia letteraria e civile.

Certo il mio rapporto con Foscolo è antico perché, ancor prima di un commento antologico assai vasto, steso intorno al ’43-44 per l’antologia Scrittori italiani (N. Sapegno, G. Trombatore, W. Binni) il cui volume ottonovecentesco (uscito nel ’46) era stato da me curato, avevo scritto, nel ’42, una voce Foscolo per un’enciclopedia diretta da S. Valitutti (e di cui poi non ho saputo piú nulla), e nel ’47 recensii il volumetto dell’amico Claudio Varese (Foscolo sterniano) nello «Spettatore Italiano» indicando l’opportunità di un raccordo fra le Grazie e la versione sterniana, alla cui zona allora soprattutto guardavo come all’esito dell’«armonia» foscoliana. Cosí come facevo quando, dopo la pubblicazione del Preromanticismo italiano (in cui avevo tenuto relativo conto della presenza foscoliana negli esiti alti del preromanticismo e dell’Ossian cesarottiano, pur contrapponendo, esemplarmente, una pagina dell’Ortis romantico ad una scena pariniana del Mattino classicistico-illuministico-sensistico), mi volsi a studiare il neoclassicismo dedicando a quel periodo alcuni corsi all’Università di Genova (dal ’48 al ’51) di cui i due ultimi studiavano il Foscolo fino alle Grazie come capolavoro di quel neoclassicismo italiano il cui sviluppo avevo rapidamente delineato in un saggio omonimo pubblicato nel ’49, in «Belfagor» (e poi ripubblicato nel volume Classicismo e neoclassicismo, Firenze 1963, 19763) che appunto configurava l’esito di quel movimento nella suprema «armonia» delle Grazie.

Quei due corsi foscoliani (pubblicati dall’editore genovese Bozzi) costituiscono la base della mia interpretazione foscoliana e ancora oggi potrei cavarne parti consistenti, riviste in una nuova prospettiva ben piú matura, come già feci anzitutto per quanto riguardava la storia della critica foscoliana che (dopo un capitolo primo-ottocentesco pubblicato sugli «Annali della Scuola Normale di Pisa» nel 1953) si consolidava, con nuove ricerche, nella voce Foscolo dei Classici italiani nella storia della critica, da me diretti per la «Nuova Italia» (1954-1955) e, con maggiore estensione, nel volume (sempre della «Nuova Italia») Foscolo e la critica, uscito nel 1957 (che ora qui ripubblico, completato fin ad oggi, e arricchito), giustificando storicamente la conclusione di quegli anni culminanti in un’immagine del «religioso vate dell’armonia», di origine fubiniana, risolta nelle Grazie, capolavoro di Foscolo e del neoclassicismo.

Laddove io stesso superavo tale immagine troppo unitaria in tante parti di quei miei corsi con un vivo senso, che piú tardi avrei meglio colto, della piú complessa, irrequieta, dinamica vicenda personale e letteraria di Foscolo: sicché ne ricavai (seppur proprio intorno alla zona delle Grazie) un saggio-discorso (tenuto a Firenze, alla Libera Cattedra Fiorentina nel 1954), Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-1813, che sottolineava la genesi complessa ed inquieta delle Grazie, il loro fondamentale legame con gli avvenimenti tragici della campagna di Russia e delle sue conseguenze, rompendo l’immagine troppo beata, pura e musicale di quella poesia, recuperandone le aspre ferite e i traumi storico-personali, la stessa sua esposizione a nuove esperienze deludenti e a nuovi impeti drammatici e pessimistici. Mentre quel saggio si legava a un mio tema ben peculiare (come ben vide Claudio Varese nel suo articolo Vita e poesia, in «Criterio», 1957), già evidenziato nella mia prospettiva metodologica Poetica, critica e storia letteraria, stesa nel 1960 (nella «Rassegna della letteratura italiana») e poi ripresa e sviluppata nel volume omonimo del 1963 per l’editore Laterza e in cui mi servivo della poesia foscoliana anche nel periodo giovanile (fino ai grandi sonetti) per evidenziare la natura della poetica esplicita e implicita e in movimento, e l’iter del suo realizzarsi poetico dentro la storia dello scrittore e della sua epoca.

E ancor meglio, a mio avviso, ciò che distingueva la mia interpretazione di quegli anni da quella culminata nella critica fubiniana e derobertisiana (pur entro un’eccessiva accettazione di certe loro generali conclusioni) si rivelava nella stesura dell’altro saggio, pur qui riprodotto, sull’Ajace, in cui quella grande tragedia, fino allora assai trascurata e misconosciuta, era rilevata nella sua grandezza di lacerante intervento storico-poetico nella storia napoleonica e nella storia umana tout court, e nella sua eccezionale importanza, anche nei confronti delle Grazie, a recuperare il fondo drammatico e pessimistico del Foscolo, la sua tensione a una diversa umanità non ferina e fratricida senza però riuscire, neppure nelle Grazie, a trovare un’alternativa radicale come avverrà invece, con tutt’altro cammino, per il Leopardi nella Ginestra.

Proprio il rapporto con Leopardi (mentre pur ancora avevo ricavato dal mio interesse per Foscolo uno studio-scoperta nella cultura europea dell’Ortis, il saggio su Ortis e Wieland, che pur qui ripubblico, con il permesso della Nuova Italia nel cui volume Classicismo e neoclassicismo venne, nel ’63, pubblicato, e cosí mi venivo avvicinando direttamente all’Ortis che sarebbe divenuto per me l’opera piú perturbante e rivelativa della personalità foscoliana) e il nuovo riacceso interesse per quel grandissimo intellettuale-poeta, a cui venni dedicando dal ’60 in poi il meglio della mia forza critica, finirono per distaccarmi da Foscolo, che sentivo tanto meno congeniale e rispondente alle nuove esigenze della mia personale poetica (incentrata appunto su Leopardi, semmai su Alfieri e, fra i contemporanei, su Montale) e troppo teso a una catarsi e a un’armonia che sempre meno mi attraevano, meno capace di essere interlocutore valido dei problemi che mi agitavano in una piú accesa passione etico-politica in direzione avanzata e alle mie preferenze per il materialismo-pessimismo eroico cui poco diceva il pessimismo riequilibrato e gli indubbi pericoli retorici del Foscolo, con la sua religione delle tombe e con punte misticheggianti e idealistiche. Donde la lunga assenza di Foscolo dal mio piú impegnativo esercizio critico[2] e semmai il mio rivolgermi, nel ’73, alla sua opera piú lacerata e giovanile, l’Ortis, il cui contatto, sia pure con la breve introduzione ad una sua edizione economica, per l’editore Garzanti, ravvivò il mio interesse foscoliano, riaccese un fecondo attrito con la critica foscoliana che pur variamente su quell’opera puntava, mi condusse (nella impressione che la zona giovanile fosse una zona particolarmente viva del Foscolo) a stendere il lungo saggio sull’Ode alla Pallavicini nello sviluppo del primo Foscolo che uscí nella miscellanea in onore di Luigi Russo (Pisa 1974) e che, a ben vedere, costituiva oltre che un’interpretazione di quell’Ode (non come evasione galante, ma come risposta della femminilità-vitalità ad un’epoca di insecuritas e di dramma personale e storico) un abbozzo abbastanza significativo di tutta la fervida zona in cui Foscolo emerge, impetuoso e rinnovante, dalle propaggini settecentesche prerivoluzionarie nel clima giacobino italiano e nella letteratura italiana ed europea di primo Ottocento.

Da lí e poi dall’occasione (ma quando mai anche un critico parte «solo» da esigenze «intime»?) del bicentenario foscoliano che mi portò a tenere (morto Fubini, gli successi nella presidenza del Comitato nazionale per l’edizione delle opere foscoliane e fui presidente del Comitato per il bicentenario foscoliano) all’Accademia dei Lincei un discorso celebrativo-critico che presupponeva una lunga rilettura dell’opera foscoliana, si è piú fortemente incentivato in me un rinnovato interesse per l’eccezionale personaggio foscoliano, per i modi del suo intervento storico-poetico, per la sua incessante sperimentazione artistica, per il suo aspetto di intellettuale-poeta e per la sua nozione del «letterato» anticonformista e pur collaborante con la storia in movimento, ben rappresentando un momento fertilissimo sulla linea Alfieri-Leopardi (e in attrito con la sontuosa figura dell’intellettuale poeta del consenso, il Monti) entro la complessa problematica dell’incalzante periodo tra rivoluzione, dittatura bonapartista e Restaurazione, tra illuminismo, preromanticismo, neoclassicismo e romanticismo, ricco di consonanze con Hölderlin, con Stendhal, con Shelley e Keats, in un’Italia che si apre sempre piú all’Europa e ai suoi fermenti piú rinnovatori.

Tutta una nuova lettura della sua opera (e del suo formidabile epistolario) ha suscitato in me un nuovo bisogno di realizzare una nuova monografia foscoliana di cui già ho steso un convulso «brogliaccio». A questa monografia – pur con la datazione dei vari saggi – prelude questo volume e soprattutto il saggio piú recente, ma anche gli altri saggi raccolti ne rappresentano parti ed avvii che ripubblico cosí come nacquero nelle varie fasi del mio non facile e rettilineo rapporto con quel grande intellettuale-poeta che, se non è Leopardi e neppure Alfieri, è pur certo un grande scrittore e una personalità capace di dir molto non solo storicamente, ma anche nel nostro difficile presente.

Roma, 4 novembre 1981


1 Per le lontane origini di quel dissenso rinvio al mio saggio su Manzoni e la rivoluzione francese, in Critici e poeti dal Cinquecento al Settecento, Firenze 1951, 19693, ora di prossima ripubblicazione, e poi al capitolo Manzoni nel volume III della Storia e antologia della letteratura italiana, mia e di R. Scrivano, Milano 1970.

2 In quel periodo stesi un capitolo monografico per la mia parte storica della Storia e antologia della letteratura italiana cit., e una voce Foscolo per l’Enciclopedia europea di Garzanti.